Diceva il padre gesuita cileno Luis Alberto Hurtado (1901-1952): “è più facile insegnare che educare perché per insegnare basta sapere, mentre per educare è necessario essere”.
Niente di più vero. La conoscenza si può acquisire in qualsiasi momento, l’educazione è connaturata all’uomo e diventa cifra morale per tutta la vita. Che cosa significa, dunque, educare? Fino a che punto i docenti possono essere definiti degli educatori? La scuola educa?
Sono tre domande apparentemente banali perché nell’immaginario collettivo si va a scuola per imparare e per essere educati. Ma cercherò di dimostrare come la questione non sia così semplice.
Educare deriva dal latino: suffisso ex, che indica provenienza, e duco, verbo di movimento. Educare nel suo significato etimologico equivale a qualcosa come ’traggo fuori’, ‘conduco fuori da’ e indica quel processo con cui si avvia quella trasformazione dell’individuo grezzo in persona responsabile e completa nel rapporto con sé e gli altri.
E’ evidente come porre in atto questa ‘trasformazione’ sia un impegno complesso che tira in ballo capacità diverse da quelle prettamente professionali (lo studio teorico sui libri o l’apprendimento pratico), ma coinvolge il docente come persona, perché si lega al proprio modo di essere e relazionarsi con il mondo.
Le scuole di pensiero si dividono in due gruppi:
Sicuramente c’è un punto di partenza importante: nell’educare la famiglia ha un ruolo primario. I bambini ricevono il modello di comportamento principalmente dai genitori e per questo diventa fondamentale la condivisione del patto educativo tra scuola e famiglia. La scuola non chiede ai genitori di intervenire sul piano didattico (che è di specifica competenza degli insegnanti), ma chiede di farsi carico del processo di educazione.
Il problema, oggi, è che molti genitori hanno abdicato al loro compito educativo: tralascio le situazioni di difficoltà sociale e di disagio, ma l’impegno lavorativo, l’assenza di altri attori in nuclei sempre più monofamiliari (senza nonni, zii, cugini più grandi) fanno in modo che il bambino sia spesso lasciato solo in questo processo di crescita, senza avere una percezione dei limiti sociali.
Negli anni Settanta-Ottanta la strada era la grande maestra che inseriva gli adolescenti in contesti allargati e li poneva in relazione gli uni con gli altri, oggi la crescita è sempre più spesso affidata all’individualismo dei social senza che si abbia la percezione reale del lecito e dell’illecito: gli insulti, la parola grossa, lo scherzo non vengono percepiti immediatamente, ma sono filtrati come se il mezzo possa consentire una sorta di impunità. E invece l’insulto, la parola, la frecciata arrivano a destinazione e feriscono senza che però la reazione dell’altro sia visibile. La società liquida in cui viviamo appiattisce i sentimenti e le emozioni e, cosa più grave, determina una certa assuefazione impotente.
Le immagini violente, l’insulto, la parolaccia, le volgarità fluiscono senza il filtro del divieto, del rimprovero, del dialogo con l’adulto di riferimento. Ne consegue che molti ragazzi, crescendo, non sono coinvolti in un processo educativo (perché nessuno ha avviato l’ex-duco, il ‘trarre fuori’), ma auto-formativo, non necessariamente consono con il contesto sociale di riferimento. Solo i genitori più attenti, magari più presenti, possono convogliare tutte le loro forze in questa attività correttiva.
I docenti non possono, a mio avviso, lavarsi le mani: se il ragazzo non è formato come individuo e non ha raggiunto un discreto livello educativo la scuola ha il dovere di intervenire perché per quel ragazzo rappresenta l’ultima frontiera, l’unica possibilità per un inserimento sociale e lavorativo soddisfacente.
Naturalmente occorrono docenti formati a questo e se non si vuole coinvolgere professionalmente l’insegnante, occorre pensare a figure capaci di trasmettere il bagaglio di competenze funzionali all’educazione, che non si concretizza solamente in una serie di regole (il non fare), ma in una giusta valutazione del lecito e del non lecito, in uno studio dei rischi dei social e del loro corretto utilizzo, in un’analisi del ‘galateo’ (parola ormai caduta in disuso) del comportamento. L’educazione civica che avrebbe dovuto in parte assolvere a questo compito, è di fatto diventata un’altra materia di studio ripartita tra discipline, dedicata spesso all’analisi di questioni ambientali, all’educazione sanitaria, agli approfondimenti storici e dei diritti civili. A mio avviso non basta. Occorre ripartire in maniera netta dall’indicazione del lecito e del non lecito, dei diritti e dei doveri, di quello che banalmente costituisce, in una società civile, il giusto e lo sbagliato. Occorre ripristinare paletti di confine chiari e fermi che mostrino ai nostri adolescenti, futuri uomini e donne in contesti sociali e familiari, il senso definito del limite e i confini della realtà, ben diversa dal mondo fluido e pericolosamente indulgente dei videogiochi e di internet.
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